sabato 22 gennaio 2011

documenti giorno della memoria

La legislazione razzista in Germania
A seguito delle elezioni del luglio 1932, nelle quali il Partito nazionalsocialista risultò il primo partito tedesco conquistando ben 230 seggi al Reichstag, Hitler venne nominato cancelliere dal presidente della repubblica Hindenburg il 30 gennaio 1933. L’incendio del Reichstag, il 27 febbraio 1933, opera di uno squilibrato ma falsamente attribuito ai comunisti, fu il pretesto per varare le leggi eccezionali che annullavano le libertà civili e per ottenere dal Reichstag, il 23 marzo 1933, la legge sui pieni poteri [Ermächtingunggesätze].
Le leggi razziali si succedettero, in un crescendo parossistico, in mezzo a violenze perpetrate ai danni degli ebrei dalle formazioni paramilitari del nazionalsociasmo – le SA (Sturmabteilungen = reparti d’assalto) e le SS (Schutzstaffeln = squadre di protezione) – a partire dal boicottaggio delle attività commerciali ebraiche (1 aprile 1933). Già un decreto del 7 aprile 1933 stabiliva il licenziamento dei funzionari statali di “ascendenza non ariana”; il 12 aprile venivano disposti limiti all’attività professionale dei medici ebrei e a ottobre tutti gli ospedali di Berlino venivano dichiarati purificati da medici ebrei: i medici espulsi non potevano essere impiegati in nessun altro ospedale del paese. Intanto, il 21 aprile 1933 era stata vietata la macellazione rituale ebraica.  Il 16 marzo 1935 venne reintrodotta la coscrizione obbligatoria ma il 31 maggio gli ebrei vennero dichiarati inadatti al servizio militare. Il 25 aprile gli ebrei vennero esclusi dall’insegnamento pubblico nelle scuole superiori e il 4 ottobre dalle attività di giornalismo. Ma lo strumento giuridico per attuare la piena discriminazione degli ebrei fu rappresentato dalle Leggi di Norimberga, approvate il 15 settembre del 1935: la Legge per la cittadinanza tedesca e la Legge per la protezione del sangue e dell’onore tedesco. La prima delle due leggi, all’art.2, sostituiva alla nascita, come criterio per godere del diritto di cittadinanza e dei conseguenti diritti politici, il sangue e l’appartenenza alla comunità popolare (Volksgenosse), stabilendo che “il Cittadino del Reich (Reichsbürger) è soltanto l’appartenente allo stato di sangue tedesco o affine il quale, col suo comportamento, dia prova di essere disposto ad adottare e servire fedelmente il popolo e il Reich tedesco”. A sua volta, la  seconda legge approvata, stabilito che “la purezza del sangue tedesco è la premessa per la conservazione del popolo tedesco”, proibiva “i matrimoni tra ebrei e cittadini dello stato di sangue tedesco o affine” annullando quelli già celebrati sia in Germania sia all’estero (art. 1), proibiva “i rapporti extramatrimoniali tra ebrei e cittadini dello stato di sangue tedesco o affine” (art.2), vietava agli ebrei l’assunzione come domestiche di “cittadine di sangue tedesco o affine sotto i 45 anni” (art.3),  proibiva, infine, agli ebrei, la facoltà di “innalzare la bandiera del Reich e quella nazionale ed esporre i colori del Reich” (art. 4.1) permettendo invece, quasi a suggellare la loro completa estraneità dalla comunità politica, di “esporre i colori ebraici” (art.4.2). 
Il 3 marzo 1936 ai medici ebrei veniva proibito, in tutto il paese, di lavorare negli ospedali pubblici. Il 26 aprile 1938 divenne obbligatoria la denuncia dei beni appartenenti agli ebrei, il 25 luglio ai medici ebrei venne cancellata l’abilitazione per l’esercizio della professione e il 17 agosto venne introdotto l’obbligo per gli ebrei di assumere (a partire dal 1° gennaio 1939) solo nomi scelti tra quelli riportati in un apposito registro predisposto dal Ministero degli Interni: chi aveva un nome proprio diverso da quelli contemplati avrebbe dovuto aggiungere ad esso, obbligatoriamente, il nome Israel se maschio e Sara se femmina. Dal 27 settembre vennero abolite tutte le eccezioni fatte fino ad allora per certe categorie di ebrei (“benemeriti per ragioni patriottiche”) e vietato agli ebrei di esercitare professioni forensi. Il 5 ottobre i passaporti degli ebrei vennero dichiarati non validi e aggiunta la lettera J (iniziale di Judeu, ebreo) sui documenti d’identità. Il 28 ottobre quasi 20.000 ebrei polacchi vennero accompagnati alla frontiera orientale per essere espulsi dalla Germania senza alcun preavviso: anche chi viveva in Germania da molti anni o, addirittura, era nato in Germania e, pur mantenendo la nazionalità polacca, considerava la Germania una “seconda patria” venne espulso senza incertezze.

Persecuzioni in Italia
Per sette anni, dal 1938 al 1945, l’Italia fascista fu un Paese ufficialmente e concretamente antisemita; più precisamente, dapprima (fino al 25 luglio 1943) si ebbe la “persecuzione dei diritti degli ebrei”, poi (dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945) la “persecuzione delle vite degli ebrei”.
Il periodo della persecuzione dei diritti può essere convenzionalmente fatto iniziare il 14-15 febbraio 1938, quando il Ministero dell’Interno dispose il censimento della religione professata dai suoi dipendenti. Il 22 agosto 1938 venne effettuato un censimento generale degli ebrei a impostazione razzista. Nel frattempo in luglio era stato diffuso il documento teorico “Il fascismo e i problemi della razza” (poi noto col titolo fuorviante “Manifesto degli scienziati razzisti”) e in ottobre il Gran Consiglio del fascismo approvò una “Dichiarazione sulla razza”. La persecuzione dei diritti (introdotta dalle leggi “per la difesa della razza” e da numerosi provvedimenti amministrativi) colpì in particolare i settori del lavoro e della cultura: gli ebrei vennero espulsi dalla scuola (2 settembre 1938) e da tutti gli impieghi pubblici (10 novembre 1938), compreso l’esercito, vennero sostanzialmente emarginati dalle libere professioni ed eliminati dalle attività culturali; inoltre vennero loro progressivamente limitati gli impieghi presso ditte private, la gestione di attività commerciali, le iscrizioni nelle liste di collocamento al lavoro. Vennero posti limiti al possesso di case, terreni e aziende. La persecuzione fu di tipo razzista e non religioso (il bambino nato da due genitori “ariani” era classificato “ariano”, anche se professante la religione ebraica; e viceversa). Vennero assoggettate alla persecuzione circa 51 mila persone, cioè poco più dell’1 per mille della popolazione della penisola. Vennero vietati nuovi matrimoni “razzialmente misti” di “ariani” con “semiti” (10 novembre 1938; il divieto riguardava anche i matrimoni con “camiti”, oggetto peraltro questi ultimi di una normativa persecutoria autonoma, varata a partire dal 1936). L’antisemitismo permeò la vita del Paese in tutti i suoi comparti, a iniziare da quello scolastico.
La persecuzione doveva concludersi con l’allontanamento di tutti gli ebrei dalla Penisola. Mussolini decise nel settembre 1938 l’espulsione della maggioranza degli ebrei stranieri e nel febbraio 1940 l’espulsione entro dieci anni degli ebrei italiani. L’ingresso dell’Italia in guerra il 10 giugno 1940 bloccò l’attuazione di queste decisioni, e gli ebrei rimasero bloccati in un Paese che non li voleva. Il fascismo aggravò la persecuzione dei diritti, istituendo nel giugno 1940 l’internamento degli ebrei italiani giudicati maggiormente pericolosi (per il regime) e degli ebrei stranieri i cui Paesi avevano una politica antiebraica, nel maggio 1942 il lavoro obbligatorio per alcune categorie di ebrei italiani e nel maggio-giugno 1943 dei veri e propri campi di internamento e lavoro forzato per gli ebrei italiani.
Durante il periodo dei quarantacinque giorni, il nuovo governo Badoglio annullò quest’ultima decisione, revocò alcune norme persecutorie minori, ma lasciò in vigore tutte le leggi antiebraiche.
Il periodo della persecuzione delle vite degli ebrei ebbe inizio l’8 settembre e non riguardò gli ebrei dell’Italia meridionale e insulare, liberata dalle truppe anglo-americane entro la fine di quel mese. Tuttavia la grande maggioranza dei perseguitati abitava nell’Italia centro-settentrionale, assoggettata all’occupazione tedesca e al nuovo Stato fascista poi denominato Repubblica Sociale Italiana. In queste regioni, la persecuzione fu gestita da tedeschi e da italiani, tranne che nelle “zone di operazione” Alpenvorland e Adriatisches Kuestenland (Prealpi e litorale adriatico), ove fu gestita solo da tedeschi.
I nazisti intrapresero subito la loro politica di arresto-concentramento-deportazione-eliminazione e di rapina dei beni. Già il 15-16 settembre 1943 arrestarono e deportarono 22 ebrei di Merano e, negli stessi giorni, rapinarono e uccisero quasi 50 ebrei (tra i quali, vari milanesi) sulla sponda piemontese del Lago Maggiore. La prima retata attuata da un reparto specializzato di polizia fu quella del 16 ottobre 1943 a Roma: quel sabato vennero rastrellati 1.259 ebrei; due giorni dopo 1.023 di essi vennero deportati ad Auschwitz (tra di essi vi era anche un bambino nato dopo l’arresto della madre). Il 1° dicembre anche le autorità italiane cominciarono ad arrestare gli ebrei e a internarli in campi provinciali; alla fine di quel mese iniziarono a trasferirli nel campo nazionale di Fossoli, nel comune di Carpi, in provincia di Modena.

Nella prima metà del dicembre 1943 le autorità di Berlino esaminarono la politica intrapresa dalla Repubblica Sociale Italiana e decisero di lasciarle il ruolo principale nell’organizzazione degli arresti e nella gestione dei campi provinciali. Nelle settimane seguenti i due governi conclusero un accordo terribile e segreto (oggi non attestato da alcuna documentazione, ma comprovato logicamente dai fatti noti) per l’assegnazione ai tedeschi degli ebrei che venivano trasferiti dagli italiani nel campo di Fossoli (nel marzo 1944 anche la gestione del campo di Fossoli fu consegnata ai tedeschi i quali, a fine luglio-inizio agosto 1944, lo spostarono a Gries, nel comune di Bolzano). Così, i convogli di deportazione allestiti dai tedeschi dopo il gennaio 1944 trasportarono anche le vittime arrestate da italiani e consegnate consapevolmente ai tedeschi.
Nell’Adriatisches Kuenstenland gli ebrei arrestati furono raccolti dapprima nel carcere di Trieste e poi nel campo allestito nella Risiera di San Sabba, e vennero deportati con convogli autonomi.
Dalla Penisola vennero deportate circa 6.800 persone identificate (di esse, quasi 6 mila furono uccise) e circa 1.000 persone non identificate. La grande maggioranza dei deportati fu inviata ad Auschwitz; di questi, pochissimi fecero ritorno. Inoltre più di 300 ebrei furono uccisi in territorio italiano. Tra tutti gli ebrei, il gruppo maggiormente colpito fu quello dei 21 rabbini-capo delle Comunità Israelitiche: 9 di essi furono deportati (tutti ad Auschwitz, e nessuno sopravvisse).
I perseguitati che non vennero deportati o uccisi in Italia furono circa 35 mila. Circa 500 di essi riuscirono a rifugiarsi nell’Italia meridionale; 5 mila-6 mila riuscirono a rifugiarsi in Svizzera; gli altri 29 mila vissero in clandestinità nelle campagne e nelle città, protetti da antifascisti e persone dotate di buon cuore e senso della giustizia.

Circa 1.000 ebrei parteciparono attivamente alla Resistenza; circa 100 di essi caddero in combattimento o, arrestati, furono uccisi nella Penisola o in deportazioni. 
Testimonianza di Liliana Segre
Liliana Segre, nata e cresciuta a Milano, deportata e sopravvissuta al campo di sterminio di Auschwitz


Avevo 13 anni nel 1943 e conoscevo da cinque la persecuzione, perché una sera di fine estate del 1938, cinque anni prima, mio papà mi spiegò con dolcezza che non avrei più potuto andare a scuola, in via Ruffini, poiché ero una bambina ebrea e c’erano delle nuove leggi che mi impedivano di continuare la mia vita come prima. Eravamo diventati cittadini “di serie B”. Cominciò una nuova vita, una nuova scuola; sentivo crescere le preoccupazioni, vedevo i visi dei miei familiari intristiti, a volte umiliati da situazioni che non mi venivano spiegate, ma che io intuivo dolorosamente.
Dopo l’8 settembre 1943, con l’occupazione tedesca dell’Italia settentrionale, furono le leggi di Norimberga a condannarci. Mio papà decise di mettermi in salvo: mi procurò documenti falsi e mi affidò ad amici eroici che rischiarono la vita per nascondermi. Allora lasciai per sempre la mia casa e i miei nonni. Dopo qualche tempo mio papà ed io cercammo di fuggire in Svizzera. Eravamo in balìa di contrabbandieri esosi e senza scrupoli. Con grande fatica passammo il confine sulle montagne dietro a Viggiù e arrivammo in Svizzera. 
Il sogno durò poco: pochi passi in un bosco e ci imbattemmo in una sentinella che ci accompagnò al vicino comando. Là un ufficiale svizzero-tedesco non volle sentire né ragioni, né suppliche e ci rimandò indietro. A 13 anni entrai da sola nel carcere di Varese, piangendo disperatamente. Poi fui a Como; poi a Milano, a San Vittore. Qui ero con mio papà. Il quinto raggio era destinato ai prigionieri ebrei: tutti ammassati in attesa della deportazione annunciata. Guardavo piazza Aquileia dietro i finestroni schermati.
Alla fine di gennaio un implacabile appello scandì anche i nostri nomi. Caricati su un camion, attraversammo Milano e fummo portati alla Stazione Centrale, dove nel sotterraneo era pronto per noi un treno merci. Fummo fatti salire a calci e pugni e piombati nei vagoni. Il viaggio durò una settimana. Eravamo ammassati l’uno sull’altro; un secchio per gli escrementi e un po’ di paglia per terra, senza né luce, né acqua.
All’alba del 6 febbraio il treno si fermò ad Auschwitz. Ricordo il rumore osceno e assordante degli assassini intorno a noi, i fischi, i latrati; ricordo i comandi e ricordo quando fui separata per sempre da mio papà. Con altre 30 ragazze italiane, spaurite, stupite da questo destino, entrammo nel grande lager femminile di Birkenau. Era una città fantasma: una distesa senza fine di baracche spaventose. Il primo giorno fummo denudate, rapate a zero e ci fu tatuato un numero sul braccio. Questo numero sostituiva allora il nostro nome, ma è diventato negli anni una parte di me; si identifica per me con il dolore puro, con il violento cambiamento di ruolo che dovetti subire, da figlia a ragazzina disgraziata e sola in un lager.
 Imparai in fretta che lager significava morte, fame, freddo, botte, punizioni; significava schiavitù, umiliazioni, torture, esperimenti.
Fui mandata a lavorare in una fabbrica di munizioni che non si fermava mai, perché lavorava per la guerra. Ci facevano marciare cantando fino alla fabbrica e ritorno, al suono della orchestrina delle prigioniere violiniste. Sentivamo sulla strada dei rumori familiari: suono di campane, di aerei di passaggio, ma eravamo dimenticati dal mondo fuori dal campo. Se incrociavamo dei giovani della Hitlerjugend, questi ci sputavano addosso e ci insultavano.
Le sorveglianti donne erano ancora più crudeli degli uomini; avevano potere di vita e di morte sulle prigioniere e si scatenavano su di noi con ingiustificata violenza. Vivevo con una incessante paura, mi chiudevo sempre di più in me stessa, cercando di essere invisibile. Sul mio corpo di adolescente la pelle era cascante e le ossa sporgevano da tutte le parti. Non sapevamo che giorno e che ora fosse, non potevamo avere notizie di nessun genere. Vivevamo in assoluta promiscuità, senza rimanere un attimo sole. Dormivamo in 5, 6 per giaciglio, utilizzando i nostri zoccoli come cuscino. Ci servivamo dei gabinetti in 20, 30 contemporaneamente e, senza un cucchiaio, dovevamo inghiottire a sorsate, come animali, la zuppa orrenda che ci veniva data una volta al giorno. La lotta per la sopravvivenza era senza quartiere: le prigioniere affamate e disperate avrebbero fatto qualunque cosa per un pezzo di pane. Passavano i mesi e noi obbedivamo ciecamente agli ordini, poiché volevamo vivere. Cercavamo di non perdere almeno il nostro cervello. Io tentavo di sdoppiarmi, immergendomi in un mondo irreale e mi sforzavo di non vedere e di non sentire. Di non vedere i cadaveri nudi e scheletriti, ammucchiati in attesa di essere bruciati; di non vedere le punizioni, la fiamma del camino, la neve sporca, i fili spinati percorsi da corrente elettrica. Di non sentire di notte le grida, i fischi, i comandi urlati; i racconti delle altre prigioniere sulle atrocità viste o subite.
Alla fine del gennaio 1945, con l’avvicinarsi dei russi, il campo fu in parte distrutto dai nazisti in fuga e tutti i prigionieri in grado di muoversi furono evacuati verso altri campi. Fui avviata con altre disgraziate come me, a piedi, sulle strade della Germania. Non mi voltavo a guardare le compagne che cadevano e che venivano finite con una fucilata alla testa. Andavo avanti e comandavo alle mie gambe di camminare. La strada era disseminata di morti senza tomba. Ci buttavamo sugli immondezzai e ci riempivamo come pazzi di qualunque cosa. Arrivai al campo di Ravensbrück e poi ancora altri campi, fino alla primavera del 1945. Vive per miracolo, scheletri senza parvenza di femminilità, vedemmo fuggire i nostri aguzzini e giungere gli americani da una parte e i russi dall’altra. Eravamo testimoni della Storia che cambiava sotto i nostri occhi, sconvolte, stanchissime ed emozionate.
Tornai a Milano dopo mesi, quando gli americani riuscirono a organizzare il rientro, dopo averci diviso per nazionalità. Nell’agosto del 1945 arrivai, in un camion americano in piazza Cadorna. Mi avviai alla mia casa di corso Magenta per vedere se c’era qualcuno dei miei, ma le finestre rimasero chiuse per sempre.
Il viaggio
Negli ultimi giorni di gennaio [1944] il quinto raggio del carcere di San Vittore si era riempito di ebrei che arrivavano da tutta Italia: eravamo circa settecento.
Nella nostra cella entrarono timidamente due sposini di Torino, Aldo e Bianca Levi, quasi a chiederci scusa della forzata ospitalità. Si sistemarono sulla branda dove dormiva Papà; lui si mise sul pagliericcio, per terra, vicino a me. Dormivamo pochissimo, stavamo zitti per non disturbare gli altri. Faceva freddo, dormivamo vestiti.
Aspettavamo notizie. Nell’attesa fingevamo un distacco benevolo, quasi ottimista. In realtà non parlavamo che del nostro destino e un’ansia devastante trasformava ogni nostra azione, anche la più sciocca, in un caso irripetibile.
A un certo punto, credo nel pomeriggio, entrò nel raggio un tedesco che lesse i nomi di quelli che sarebbero partiti il giorno dopo per ignota destinazione. Erano circa 650 nomi, non finiva più. Pochissimi furono i “non chiamati”, quasi tutti coniugi o figli di matrimonio misto.
Rino Ravenna, sentito il suo nome, senza una parola si allontanò dal gruppo dei condannati. Sul paletot nero, ormai impolverato e grigiastro, risaltava il collo di canapina dal quale i nostri aguzzini avevano strappato la guarnizione di astrakan.
Poco dopo sentimmo un tonfo sordo. Si era buttato giù dal ballatoio dell’ultimo piano ed era morto sul colpo, là, sull’impiantito del raggio. Era sfuggito al viaggio.
Noi tutti ci preparammo a partire; ci furono distribuiti dei cestini di carta con sette porzioni di gallette, sette di mortadella, sette di latte condensato. Perché sette? Perché sette? Come facevo a guardare mio Papà? Come facevo a chiedergli la ragione di quello che ci stava accadendo?
In quelle ultime ore a San Vittore tacevo, ma ogni tanto mi allontanavo da Lui, correvo come una pazza su su fino alle grandi celle comuni dell’ultimo piano per vedere tutta quella gente sconosciuta che si preparava a partire, con gesti uguali. Era la deportazione annunciata, ne facevo parte anch’io, la principessa del mio Papà.
La mattina dopo, era il 30 gennaio 1944, una lunga fila silenziosa e dolente uscì dal quinto raggio per arrivare al cortile del carcere. Attraversammo un altro raggio di detenuti comuni. Essi si sporgevano dai ballatoi e ci buttavano arance, mele, biscotti, ma, soprattutto, ci urlavano parole di incoraggiamento, di solidarietà e benedizioni!
Furono straordinari. Furono uomini che, vedendo altri uomini andare al macello solo per la colpa di essere nati da un grembo e non da un altro, ne avevano pietà.
Fu l’ultimo contatto con esseri umani.
Poi, caricati violentemente su camion, traversammo la città deserta e, all’incrocio di via Carducci vidi la mia casa di corso Magenta 55 sfuggire alla mia vista dall’angolo del telone: mai più. Mai più.
Arrivati alla Stazione Centrale, la fila dei camion infilò i sotterranei enormi passando dal sottopassaggio di via Ferrante Aporti; fummo sbarcati proprio davanti ai binari di manovra che sono ancor oggi nel ventre dell’edificio.
Il passaggio fu velocissimo: SS e repubblichini non persero tempo: in fretta, a calci, pugni e bastonate, ci caricarono sui vagoni bestiame. Non appena un vagone era pieno, veniva sprangato e portato con un elevatore alla banchina di partenza.
Fino a quando le vetture furono agganciate, nessuno di noi si rese conto della realtà. Tutto si era svolto nel buio del sotterraneo della stazione, illuminato da fari potenti nei punti strategici, fra grida, latrati, fischi e violenze terrorizzanti.
Nel vagone era buio, c’era un po’ di paglia per terra e un secchio per i nostri bisogni.
Il treno si mosse e sembrò puntare verso Sud. Andava molto piano, fermandosi a volte per ore. Dalle grate vedevamo la campagna emiliana nelle brume dell’inverno e stazioni deserte dai nomi familiari.
Gli adulti dimostravano un certo sollievo, visto che il treno non era diretto al confine, ma alla sera ci fu un’inversione di marcia e quella notte nessuno dormì.
Tutti piangevano, nessuno si rassegnava al fatto che stavamo andando verso Nord, verso l’Austria. Era un coro di singhiozzi che copriva il rumore delle ruote.
All’alba il treno si fermò e con sgomen-to vedemmo scendere i ferrovieri italia-ni e salire i sostituti, forse austriaci, forse tedeschi.
Dai vagoni piombati saliva un coro di urla, di richiami, di implorazioni: nessuno ascoltava. Il treno ripartì.
Il vagone era fetido e freddo, odore di urina, visi grigi, gambe anchilosate, non avevamo spazio per muoverci.
I pianti si acquietavano in una disperazione assoluta.
Io non avevo né fame né sete; mi prese una specie di inedia allucinata come quando si ha la febbre alta; quando riuscivo a riflettere pensavo che, forse, senza di me, Papà avrebbe potuto scappare da San Vittore, saltare quel muro come aveva proposto Peppino Levi, o forse no. Mi stringevo a Lui, che era distrutto, pallido, gli occhi cerchiati di rosso di chi non dorme da giorni. Mi esortava a mangiare qualcosa, aveva ancora per me una scaglia di cioccolato. La mettevo in bocca per fargli piacere, ma non riuscivo ad inghiottire nulla.
Nel centro del vagone si formò un gruppo di preghiera: alcuni uomini pii, fra i quali ricordo il signor Silvera, si dondolarono a lungo recitando i Salmi. Mi sembrava che non finissero mai: erano i più fortunati.
Le ore passavano, così le notti e i giorni, in un’abulia totale: era difficile calcolare il tempo. Pochissimi avevano ancora un orologio e anche quei pochi privilegiati non lo guardavano più. Ogni tanto vedevo qualcuno alzarsi a fatica e cercare di capire dove fossimo, guardando dalle grate, schermate con stracci per riparare dal gelo quel carico umano. Si vedeva un paesaggio immerso nella neve, si vedevano casette civettuole, camini fumanti, campanili…
Prima che cominciasse la Foresta Nera, il treno si fermò e qualcuno poté scendere tra le SS armate fino ai denti, per prendere un po’ d’acqua e vuotare il secchio immondo. Anch’io e il mio Papà scendemmo e vedemmo per la prima volta, scritto col gesso sul vagone: “Auschwitz bei Katowice”.
Capimmo che quella era la nostra meta. Il treno ripartì quasi subito e la notizia della nostra destinazione gettò tutti in una muta disperazione.

Fu silenzio nel vagone in quegli ultimi giorni. Nessuno più piangeva, né si lamentava. Ognuno taceva con la dignità e la consapevolezza delle ultime cose. Eravamo alla vigilia della morte per la maggior parte di noi. Non c’era più niente da dire. Ci stringevamo ai nostri cari e trasmettevamo il nostro amore come un ultimo saluto.
Era il silenzio essenziale dei momenti decisivi della vita di ognuno.
Poi... poi, all’arrivo fu Auschwitz e il rumore assordante e osceno degli assassini intorno a noi.
Testimonianza di Annamarcella Falco Tedeschi
In seguito alle Leggi antiebraichei gli ebrei dovettero lasciare le scuole pubbliche. Alcune Comunità ebraiche, come quella di Milano, organizzarono scuole per far studiare i propri ragazzi.
Ecco la testimonianza di Annamarcella Falco Tedeschi, studentessa in quegli anni a Milano, nella scuola ebraica di via Eupili.
Posso dire di essere milanese, benché non sia nata a Milano, ma vi sia arrivata piccolissima da Parma, dove mio padre insegnava diritto ecclesiastico in quell’Università. Ma anche Parma costituiva solo una tappa nella mia famiglia; le mie radici sono frastagliate: mia madre proveniva da un’antica famiglia ebraica ferrarese, i Ravenna, mentre quella di mio padre, Mario Falco, era torinese da molte generazioni, probabilmente proveniente da Gerona in Spagna.
Mio padre iniziò a insegnare all’Università di Milano dalla sua fondazione nel 1924 e da allora la nostra famiglia divenne milanese a tutti gli effetti, mentre i miei ricordi delle prime classi elementari non sono dei più brillanti. Sia io che mia sorella, di cinque anni minore di me, passammo gli anni delle elementari studiando privatamente. In prima media (allora si diceva prima ginnasio) entrai al Ginnasio Manzoni e lì trascorsi cinque ottimi anni. Forse la scuola mi sembrava così bella perché finalmente me l’ero conquistata. Il fatto di essere ebrea non creava la minima discriminazione; c’erano altre bambine ebree in classe: “uscivamo” all’ora di religione e ben presto fu organizzata un’ora sostitutiva di ebraismo a cui partecipavamo noi ragazzini ebrei, magari riunendo varie classi insieme.
La nostra famiglia viveva in quello che sembrava un perfetto equilibrio: mio padre insegnava diritto ecclesiastico, ma era anche consigliere della Comunità Ebraica di Milano; mia madre era vice-presidente dell’Associazione Donne Ebree d’Italia (l’attuale Adei Wizo) e dirigeva un giornaletto per ragazzi “L’Israel dei Ragazzi”, già esistente da molti anni; quanto a me ero molto legata con alcune compagne di classe, naturalmente cattoliche… Tutto proseguì serenamente fino al 1938 quando, quasi di soppiatto, sui giornali cominciarono a fare capolino frecciate antiebraiche e la parola “razza” (uscì una rivista intitolata appunto La difesa della razza) a imitazione di quanto ormai da tempo accadeva nell’alleata Germania. La prima mossa ufficiale si ebbe il 14 luglio con la pubblicazione del “Manifesto della Razza”, opera tra l’altro del professor Nicola Pende che comunicava appunto nella rivista che “gli ebrei non appartenevano alla razza italiana”.
Per noi fu un’estate pesantissima: eravamo in vacanza a San Vito di Cadore e ogni mattina si apriva il giornale con il batticuore. E ogni volta c’era qualche amarezza; va ricordato che cos’erano i giornali a quell’epoca: sotto il fascismo non esisteva la possibilità di opposizione o di critica e il tono di tutta la stampa era identico. Mio padre riceveva lettere e visite incoraggianti da colleghi cattolici: erano i suoi amici antifascisti come lui, (primi tra tutti il professor Piero Calamandrei e il professor Carlo Arturo Jemolo) che gli esprimevano solidarietà. Ma questo non bastava a rasserenarci né a rassicurarci.
Il 5 settembre (eravamo appena rientrati a Milano) la situazione si fece drammatica; il Regio decreto legge n. 1390, pubblicato in quel giorno, era esplicito: da quel momento ai docenti e agli studenti di origine ebraica era vietato accedere alle scuole di ogni ordine e grado. Per la nostra famiglia fu una mazzata tremenda. Mio padre veniva “messo in pensione” e a me veniva precluso l’ingresso a scuola. Ho passato prove durissime nella mia vita, in seguito, ma quella volta mi sembrò che il mondo mi crollasse addosso. Le mie compagne di scuola (la mamma mi aveva detto “aspetta che ti chiamino loro”) non si facevano vive; e – cosa veramente incredibile – anche le più intime sembravano dissolte nel nulla. Quello che è diventato mio marito, Enrico Tedeschi, invece, che frequentava il Ginnasio Parini, ebbe eccezionali manifestazioni di solidarietà in particolare da parte del suo compagno Marco Vercesi, figlio dell’avvocato Galileo Vercesi, uno dei “martiri di Fossoli”.
Nella Comunità ebraica, dopo i primi momenti di sbandamento, si cominciò ad agire: con la collaborazione di numerosi volenterosi “padri di famiglia” iniziò una frenetica corsa con il tempo e con gli spazi per creare le scuole superiori per i ragazzi ebrei; già da alcuni anni funzionavano nelle due villette di via Eupili 6/8, al Sempione, gli asili e le scuole elementari. Il presidente della Comunità, Comandante Federico Jarach, con la stretta collaborazione di mio padre (assessore della stessa), invitò il professor Yoseph Colombo, ex-preside del Liceo Scientifico di Ferrara, e rimasto perciò “disoccupato”, a prendere le redini dell’iniziativa. Nella scuola, oltre che gli spazi, mancava tutto, ma vi erano tanti professori rimasti anch’essi senza lavoro e il miracolo si verificò: il 7 novembre, a due mesi dalla promulgazione delle Leggi Razziali, le scuole medie e superiori iniziarono l’attività.
Ricordo quei primi giorni come giorni di felicità: nonostante tutto ci eravamo riusciti e credo che nessun ragazzo sia mai andato a scuola con la gioia con cui ci andavamo noi; non andavamo a scuola obbligati dai genitori come tutti i ragazzini del mondo, la scuola ce l’eravamo conquistata.
Scoprimmo nuovi orizzonti, stringemmo nuove amicizie: la situazione comune le rendeva più facili. Più tardi vennero organizzati (nelle inesauribili cantine di via Eupili) anche due corsi universitari, uno di chimica ed uno di diritto ed economia, per i quali furono coinvolti docenti universitari di alto livello, e che a guerra finita furono riconosciuti dalle autorità accademiche.
Quanto a me, partecipai brevemente al corso di chimica, poi le vicende tragiche ebbero il sopravvento. Nell’autunno del 1942 fui per alcuni mesi precettata (come molti ragazzi ebrei) come operaia allo “Scatolificio Ambrosiano”, mentre altre ragazze lavorarono in una fabbrica di borracce e i ragazzi furono adibiti alla sezione “orti e giardini” del Comune di Milano. Ma si trattò di episodi di breve durata, travolti prima dai bombardamenti e poi dalle tragiche vicende dell’autunno del 1943.
Personalmente, con la mia famiglia “sfollai” (si diceva così!) a Ferrara nella casa dei nonni. Dopo l’8 settembre (armistizio) la situazione andò precipitando. Mio padre, minato dalle ansie, morì di infarto e al suo funerale, al Cimitero ebraico di Ferrara, il 7 ottobre 1943, erano presenti poco più di una decina di eroiche persone: proprio il giorno precedente era stata fatta una prima retata di ebrei ferraresi tra i quali il rabbino stesso Leone Leoni.
Il seguito della storia mia, di mia madre e mia sorella ha aspetti miracolosi: il professor Jemolo (il grande amico di mio padre), ignaro della sua morte scriveva cartoline che incredibilmente conservo in cui invitava ad andare a Roma dove si sperava che la “liberazione” sarebbe arrivata prima che al nord. Dopo molte esitazioni, partimmo ignare di quanto nel frattempo era avvenuto proprio a Roma e cioè della terribile retata del 16 ottobre.
 Nonostante ciò l’accoglienza della famiglia Jemolo (il professore, la moglie e i tre figli) fu stupenda: non ebbero un attimo di esitazione e ci accolsero in casa dichiarando alla portinaia e a chi ci stava intorno che eravamo parenti provenienti da Napoli. Ci fornirono documenti di identità falsi e grazie al loro eroico comportamento, alla loro straordinaria ospitalità e disponibilità vivemmo presso di loro fino al giorno della Liberazione di Roma, avvenuto il 4 giugno 1944.
Annamarcella Falco Tedeschi
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Il significato di alcune parole
Genocidio = dal greco génos – stirpe – e dal latino caedere – uccidere – (cfr. omicidio). Riferito alla metodica distruzione di un gruppo etnico o religioso, compiuto attraverso lo sterminio fisico sistematico e l’annullamento dei valori e dei documenti culturali. Questo termine inizia a essere impiegato proprio dopo i tragici eventi che determinarono lo sterminio degli ebrei d’Europa durante la Seconda guerra mondiale. Oggi viene adoperato con una tale leggerezza, che non solo ne dissacra il significato, ma che contribuisce a offuscare il giudizio su molti conflitti in atto e a falsarne pericolosamente la sostanziale portata.
 
Olocausto
= dal latino holocaustum, che è il greco holòkauston, da hòlos “tutto” e kaustòs “bruciato”, dal verbo kaìein “bruciare”. Per estensione, Sacrificio, soprattutto della propria vita, ispirato da una dedizione completa al proprio ideale. Questa parola è stata impropriamente adottata per definire lo sterminio degli ebrei europei durante la Seconda guerra mondiale. Come si capisce dall’etimo, infatti, non definisce correttamente l’evento. Implicherebbe cioè una volontà delle vittime nell’offrirsi in sacrificio per un ideale, cosa ovviamente impensabile. Ecco perché si preferisce l’uso della parola ebraica Shoah.

Shoah
= voce biblica che significa “desolazione, catastrofe, disastro”. Questo vocabolo venne adottato per la prima volta nella comunità ebraica di Palestina, nel 1938, in riferimento al pogrom della cosiddetta “Notte dei Cristalli” (Germania, 9-10 novembre 1938). Da allora definisce nella sua interezza il genocidio della popolazione ebraica d’Europa, perpetrato durante la Seconda guerra mondiale.

Pogrom
= dal russo pa’grom. Sommossa animata da volontà distruttiva, con particolare riferimento alle violente rivolte popolari russe di fine 1800 – primi del 1900, contro gli ebrei, tollerate e favorite dalle autorità dello zar.

Razza
= sostantivo che indica un raggruppamento di individui appartenenti a una stessa specie animale o vegetale, che si distingue per caratteristiche ereditarie comuni, derivate da cause diverse (geografiche, climatiche, ambientali). Il concetto di “razza” è applicato anche all’uomo, che viene empiricamente suddiviso in razze a seconda del colore della pelle o di altri criteri morfologici, in seguito a studi che hanno inizio nel XIX secolo.
La scienza moderna nega questa classificazione del genere umano, dal momento che solo un codice genetico (DNA) può determinare i caratteri ereditari degli esseri umani e l’appartenenza di ogni uomo a un gruppo d’individui a lui simili.

Razzismo
= atteggiamento ideologico di un gruppo umano dovuto alle sue vere o presunte caratteristiche “razziali”, che gli proibisce di mescolarsi agli altri gruppi, gli fa credere di avere una superiorità biologica e una civiltà superiore e porta perciò i suoi appartenenti a respingere, fino a odiare e perseguitare i membri degli altri gruppi. Molto diffuso anche se non sempre consapevole, è talvolta alla base di altri atteggiamenti ideologici, come il nazionalismo o la discriminazione sociale.


 

lunedì 17 gennaio 2011

FISICA E MATEMATICA: esercizi + regole matematica

ciao, pubblico gli esercizi di fisica più le regole di matematica. Scusate il ritardo ma ho avuto problemi con la connessione internet.


venerdì 14 gennaio 2011

INGLESE

ciao! ricordo a tutti che domani in inglese saranno interrogati coloro che sono stati estratti oggi....

ps: la Giuditta Pirola non verrà interrogata perchè ha la verifica di matematica da recuperare.

ciao ciao

lunedì 10 gennaio 2011

compiti di Fisica

Ciao!!! pubblico i compiti di fisica per domani. Gli esercizi da fare sono i PROBLEMI dal numero 1 al numero 14.